Letteratura francese

La Sanfelice


la sanfelice

 

Siamo alla fine del XVIII secolo, in una Napoli già fortemente superstiziosa, influenzata dalla devozione a San Gennaro, regna un debole re, pavido, inetto e codardo e ignorante come lui stesso si definisce, Ferdinando IV di Borbone, re spagnolo  cresciuto con i “lazzaroni” del porto dove la camorra esercita il suo potere. (Dumas lo definisce: Lâche et faux comme prince, François fut faux et cruel comme roi. “Falso e codardo come principe, Francesco fu falso e crudele anche come re.” )

Al suo fianco l’odiata Carolina d’Asburgo, amica e confidente dell’ammiraglio inglese Nelson (le grand génie) con il quale stringe un’alleanza che porterà anche all’intervento delle truppe russe.
Questo patto tra la regina, gli Inglesi e appunto i Russi, è stipulato allo scopo di respingere i Francesi, che sulla scia della Rivoluzione del 1789, intervengono ad aiutare i patrioti partenopei a scacciare la monarchia, instaurando anche a Napoli la Repubblica.

Sullo sfondo del preciso racconto storico di Dumas, poca è la parte che spetta al romanzo come frutto della mente del grande scrittore; ad esempio la vita della protagonista Luisa Sanfelice, è molto simile a quella della vera nobildonna che frequentava la corte di Napoli, come reali sono i patrioti che condivisero con lei la condanna e la sorte a cui furono destinati.

Ad un certo momento della lettura nasce una domanda: forse troppi stranieri a Napoli? E in tutto questo fermento il popolo con chi sta?

Dumas amava molto la città alle falde del Vesuvio e alla quale dedica questo suo lavoro. Da buon francese, ovviamente amava molto di più la sua patria e con delicatezza trascina il lettore a parteggiare per i patrioti e per i francesi che li sostengono e diventa difficile resistere a non schierarsi a fianco di chi subisce i soprusi di quella vigliacca monarchia e a guardare non troppo benevolmente gli scugnizzi Lazzaroni amici del Re Nasone e dei suoi seguaci.

Come quasi tutti i suoi romanzi: un capolavoro!

Pubblicato a puntate sul giornale napoletano “L’Indipendente” , rivista garibaldina che l’autore francese fondò e diresse per tre anni, dopo aver partecipato, anche finanziariamente, come amico di Garibaldi, all’impresa dei Mille. La versione francese seguì poco dopo sul giornale “La Presse” a Parigi.

Dello stesso autore abbiamo letto: L’avvelenatrice, La vicenda della dama pallida, GeorgesRobin HoodIl Visconte di BragelonneLa Regina Margot, Il tulipano nero, 

Giudizio di 2Mog2: gufolibro5_tras

Titolo: La Sanfelice
Titolo originale: La Sanfelice
Autore: Alexandre Dumas (padre)
Traduttore: Ascari F., Cillario G., Ferrero P.
Curatore: Bas E., Ciglia F. P., Zicari S.
Editore: Adelphi
Collana: Gli Adelphi
Data di pubblicazione:
1864 (prima edizione); 1° Gennaio 1999 (si segnala l’edizione più economica attualmente in commercio) 
Prezzo: 28 €
Pagine: 1754 (2 volumi)
Codice ISBN: 9788845914331

book-to-filmDifficile forse trasporre sul piccolo e grande schermo questo pilastro della letteratura mondiale, tant’è che nella storia della televisione e del cinema, le pellicole che si sono prodotte in merito non sono così numeroso come ci si potrebbe aspettare.
Segnaliamo il film di Menardi del 1942, lo sceneggiato di Cortese del 1966 e la più recente miniserie televisiva dei fratelli Taviani (2004); i titoli, tutti uguali: Luisa Sanfelice.

…”Books and movies are like apples and oranges. They both are fruit, but taste completely different”…
                               (Stephen King)

 

Maccheroni alla Pulcinella

…des Pantalons qui dansaient, des Pagliacci qui se disputaient, des lazzaroni qui s’en moquaient, et enfin des Polichinelles mangeant leur macaroni avec la béatitude que les Napolitains, pour lesquels le macaroni représente l’ambroisie antique, mettent à l’inglutition de cet aliment tombé de l’Olympe sur la terre.

…”Pantaloni danzanti, Pagliacci che si azzuffavano tra loro, lazzaroni che ne ridevano, Pulcinella che mangiavano maccheroni con l’aria beata dei napoletani – per i quali i maccheroni rappresentano l’ambrosia degli antichi – quando assaporano questo cibo caduto dall’Olimpo sulla terra”.

Rigatoni alla Pulcinella Ingredienti (per 2 persone):

  • 200g di rigatoni,
  • 100g di culatello,
  • 150g di ricotta,
  • 50g di formaggio grana,
  • 200g di pomodori pelati,
  • 1 costa di sedano,
  • 1 carota,
  • 1 spicchio di aglio,
  • 1 cipolla,
  • basilico q.b.,
  • prezzemolo q.b.,
  • sale q.b.,
  • olio extravergine di oliva q.b.

Procedimento:

Cuocete i rigatoni in acqua bollente salata e scolateli ancora al dente.
Tritate finemente il sedano e la carota.
Con l’aiuto di un cucchiaino, farcite i rigatoni con il composto ottenuto.
In un tegame preparate una salsa di pomodoro cuocendo i pelati con l’olio, l’aglio, la cipolla e il basilico.
In una padella stemperate la ricotta con un po’ di acqua di cottura della pasta, aggiungete i rigatoni farciti, il grana grattugiato, le fette di culatello e il basilico.
Servite i rigatoni sopra la salsa di pomodoro.
Decorate con delle foglie di prezzemolo.

Un po’ di sale in zucca:
Io che sono poveretto,
senza casa e senza tetto,
venderei i miei calzoni
per un piatto di maccheroni!

Se vuoi essere un soldato
vai alla guerra sempre armato,
purché tirino i cannoni
almeno un piatto di maccheroni!

Pulcinella mezzo spento
vuole fare testamento,
pur di avere dai padroni
almeno un piatto di maccheroni!

Tarantella si è cantata,
due carlini si è pagata,
stiamo allegri o compagnoni,
che compreremo dei maccheroni!
(Filastrocca della tradizione napoletana)

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Waterloo, 200 anni fa


BRUXELLES-BATTAGLIA-DI-WATERLOO

 

Tante pagine sono state scritte su Waterloo, ma forse le parole più belle vengono da Victor Hugo, vogliamo ricordare quindi questo avvenimento con alcuni capitoli di un libro meraviglioso come I Miserabili che spiegano dettagliatamente questa famosa battaglia e un invito naturalmente a leggere questo capolavoro del grande autore francese

Datemi tre franchi, signore e, se volete, vi spiegherò la faccenda di Waterloo!

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IV • A.

Coloro che vogliono figurarsi chiaramente la battaglia di Waterloo, non hanno che da stendere sul suolo, col pensiero una A maiuscola. La gamba sinistra dell’A è la strada di Nivelles, la destra la strada di Genappe e il taglio dell’A è la strada in trincea che va da Ohain a Braine-l’Alleud. Il vertice dell’A è Mont-Saint-Jean, dove si trova Wellington; la punta sinistra inferiore è Hougomont, dov’è Reille con Gerolamo Bonaparte; la punta destra inferiore è la Belle-Alliance, dove si trova Napoleone; un po’ al disotto del punto in cui il taglio dell’A incontra la gamba destra, si trova la Haie-Sainte, mentre il punto medio del taglio indica il punto preciso in cui fu detta l’ultima parola della battaglia. Là venne collocato il leone, simbolo involontario del supremo eroismo della guardia imperiale.
Il triangolo compreso nella parte superiore dell’A, fra le gambe e il taglio è la spianata di Mont-Saint-Jean: la disputa di quella spianata fu tutta la battaglia.
Le ali dei due eserciti si stendono a destra e a sinistra delle due strade di Genappe e di Nivelles, d’Erlon di fronte a Picton, Reille di fronte a Hill. Dietro la punta dell’A, dietro la spianata di Mont-Saint-Jean, v’è la foresta di Soignes; quanto alla pianura, ci si figuri un ampio terreno ondulato, in cui ciascuna piega domina la seguente, salendo tutte verso Mont-Saint-Jean e facendo capo alla foresta.
Due schiere nemiche sul campo di battaglia sono due lottatori. È un corpo a corpo, in cui ciascuno cerca di far sdrucciolare l’altro; ci si aggrappa a tutto, e un cespuglio è un punto d’appoggio, come l’angolo d’un muro è un sostegno. Per la mancanza d’una bicocca alla quale addossarsi, un reggimento cede; un lieve pendìo, una piega del terreno, un sentiero provvidenzialmente trasversale, un bosco o un precipizio possono arrestare il tallone di quel colosso che si chiama un esercito ed evitargli d’indietreggiare. Chi esce dal campo è battuto.
Quindi per il capo responsabile, la necessità d’esaminare il più piccolo ciuffo d’alberi e d’approfondire il minimo risalto.
I due generali avevano attentamente studiato la pianura di Mont-Saint-Jean, detta oggi di Waterloo. Fin dall’anno precedente, Wellington, con previdente sagacia, l’aveva esaminata come possibile località da grande battaglia; su quel terreno e per quel duello, il 18 giugno, Wellington aveva il lato buono, Napoleone quello cattivo.
L’esercito inglese era in alto, l’esercito francese in basso.
Tratteggiar qui l’aspetto di Napoleone a cavallo, col cannocchiale in mano, sull’altura di Rossomme, all’alba del 18 giugno 1815, è quasi superfluo: prima che lo si faccia vedere tutti l’han visto. Quel profilo calmo sotto il piccolo cappello della scuola di Brienne, quell’uniforme verde dai bianchi risvolti che nascondono le decorazioni, il pastrano grigio sopra le spalline, l’estremità del cordone rosso sotto il panciotto, i calzoni di pelle, il cavallo bianco colla gualdrappa di velluto purpureo con gli N coronati e le aquile, gli stivali alla scudiera, sulle calze di seta, gli speroni d’argento e la spada di Marengo, tutta, insomma, la figura dell’ultimo Cesare, è viva nelle immaginazioni, acclamata dagli uni, detestata dagli altri.
Quella figura fu per lungo tempo tutta in luce, per effetto di quella oscurità leggendaria che la maggior parte degli eroi sprigionano intorno a loro e che vela sempre, più o meno a lungo, la verità; ma oggi s’apron la via la storia e la luce.
Quella luce che è la storia spietata. Essa ha questa stranezza divina, che, cioè, per quanto sia luce ed appunto perché tale, mette spesso ombre dove si vedevano i raggi e fa dello stesso uomo due diversi fantasmi, uno dei quali combatte l’altro, facendone giustizia. Le tenebre del despota lottano contro il fulgore del capitano; ne scaturisce una misura più esatta nel definitivo apprezzamento dei popoli. Babilonia violata diminuisce Alessandro; Roma incatenata diminuisce Cesare; Gerusalemme sterminata diminuisce Tito. La tirannia segue il tiranno: disgraziato l’uomo che lascia dietro di sé ombre che assumono le sue forme.

V • IL «QUID OBSCURUM» DELLE BATTAGLIE

Tutti conoscono la prima fase di questa battaglia: un inizio torbido, incerto ed esitante, minaccioso per ambo gli eserciti ma più per gli inglesi che per i francesi.
Era piovuto tutta la notte e il terreno era stato sconvolto dall’acquazzone; qua e là, l’acqua raccolta in pozzanghere come tinozze, tanto che in certi punti i carriaggi dell’artiglieria s’immergevano fino agli assi. I sottopancia dei cavalli gocciolavano di fango liquido, e se le spighe di grano e di segala abbattute da quella fila di carri in marcia non avessero colmato le carreggiate e fatto un letto sotto le ruote, qualunque movimento, in particolare nelle vallette dalla parte di Papelotte, sarebbe stato praticamente impossibile.
La faccenda incominciò tardi. Abbiamo spiegato che Napoleone aveva l’abitudine di tener tutta l’artiglieria in pugno come una pistola, prendendo di mira ora questo ed ora quel punto della battaglia; perciò aveva voluto aspettare che le batterie già pronte potessero muoversi e galoppare liberamente. Bisognava a tale uopo che uscisse il sole e seccasse il terreno; ma il sole non comparve. Non era più l’appuntamento d’Austerlitz.
Quando il primo colpo di cannone venne tirato, il generale inglese Colville guardò l’orologio e constatò ch’erano le undici e trentacinque.
L’azione s’impegnò forse con maggior furia di quanto non volesse l’imperatore, dall’ala sinistra francese sopra Hougomont. Nello stesso tempo Napoleone assalì il centro, gettando la brigata Quoit sopra la HaieSainte, e Ney spinse l’ala destra francese contro la sinistra inglese, che s’appoggiava su Papelotte.
L’attacco di Hougomont era un po’ una finta; doveva attirare Wellington e farlo gravitare a sinistra, secondo il piano stabilito. Quel piano sarebbe riuscito, se le quattro compagnie delle guardie inglesi ed i coraggiosi belgi della divisione Perponcher non avessero solidamente tenuto la posizione; tanto che Wellington, invece di raccogliervi grandi masse, poté limitarsi a spedirvi per tutto rinforzo altre quattro compagnie di guardie e un battaglione del Brunswick.
L’attacco dell’ala destra francese su Papelotte era a fondo. Rovesciare la sinistra inglese, tagliar la strada di Bruxelles, sbarrare eventualmente il passo ai prussiani, forzare Mont-Saint-Jean, ributtare Wellington su Hougomont e di là su Braine-l’Alleud e poi su Hal, era quanto poteva esserci di più chiaro.
A parte qualche incidente, quell’attacco riuscì; Papelotte fu preso e la Haie-Sainte conquistata.
Un particolare: nella fanteria inglese, specialmente nella brigata Kempt, v’erano moltissime reclute. Quei giovani soldati, di fronte ai nostri temibili fantaccini, furono valorosi; seppero trarsi intrepidamente d’impaccio, malgrado l’inesperienza, e resero soprattutto un ottimo servizio come bersaglieri. Il soldato, quand’è impiegato come bersagliere ed è quindi un poco abbandonato a sé, diventa, per così dire, il proprio generale; quelle reclute mostrarono l’iniziativa e la furia francese; quella fanteria novizia ebbe slancio, cosa che piacque a Wellington.
Dopo la presa della Haie-Sainte, la battaglia fu incerta.
V’è in quella giornata campale, dal mezzodì alle quattro, un intervallo oscuro; il periodo intermedio è quasi indistinto con una oscura mischia: è come immerso nel crepuscolo. Si scorgono in quella nebbia grandi fluttuazioni, un vertiginoso miraggio, l’apparato della guerra d’allora, pressoché ignorato oggidì: i colbacchi impennacchiati, le fonde ondeggianti, le bandoliere incrociate, le giberne colla granata, i dolman degli ussari, i rossi stivali dalle mille pieghe, i pesanti schako inghirlandati di passamani, la fanteria quasi nera di Brunswick mista a quella scarlatta d’Inghilterra, i soldati inglesi, con grossi cuscinetti bianchi di forma circolare, al posto delle spalline, i cavalleggeri annoveresi, col loro elmo di cuoio a liste di ottone e la criniera rossa, gli scozzesi, ginocchia nude e sottanelle quadrettate, le grandi ghette bianche dei nostri granatieri; quadri e non linee strategiche, quel che ci vuole per Salvator Rosa e non per Gribeauval.
Una parte di tempesta si accompagna sempre ad una battaglia. Quid obscurum, quid divinum; ed ogni storico rivela ciò che gli piace, in quelle confusioni.
Qualunque sia il piano dei generali, l’urto delle masse armate ha riflussi incalcolabili; durante l’azione, i piani dei due capi entrano l’uno nell’altro e si deformano reciprocamente.
Il tal punto del campo di battaglia divora più combattenti del tal altro, come quei terreni più o meno spugnosi, che bevono più o meno presto l’acqua.
Si è così obbligati a rovesciare là più soldati di quanto non si vorrebbe; e queste spese sono impreviste. La linea di battaglia ondeggia, serpeggia come un filo, rivoli di sangue non previsti scorrono, le fronti degli eserciti ondeggiano ed i reggimenti, entrando od uscendo, forman capi o golfi, tutti quegli scogli si muovono continuamente, gli uni davanti agli altri. Dov’era la fanteria, sopraggiunge l’artiglieria; i battaglioni sono fumacchi; lì v’era qualcosa e, quando cercate, tutto è scomparso; i vuoti si spostano, mentre avanzano e si ritirano sinistre pieghe; una specie di vento sepolcrale spinge e ricaccia, gonfia e disperde quelle tragiche moltitudini. Che è una mischia? È un’oscillazione: l’immobilità d’un piano matematico esprime un minuto, non già una giornata. Per dipingere una battaglia, ci vogliono quei possenti pittori che hanno il caos nel pennello. Rembrandt vale di più di Van Der Meulen, il quale, veridico a mezzogiorno, mente alle tre. La geometria inganna e solo l’uragano è vero; questo dà a Folard il diritto di contraddire Polibio. Aggiungiamo che v’è sempre un istante in cui la battaglia degenera in zuffa, si fa particolare, si frantuma in innumerevoli azioni singole che, per citare l’espressione dello stesso Napoleone, «appartengono piuttosto alla biografia dei reggimenti che alla storia dell’esercito». Lo storico, in tal caso, ha l’evidente diritto di riassumere; non può afferrare altro che i principali contorni della lotta.
A nessun narratore, per coscienzioso che sia, è dato di fissare in modo assoluto la forma di quell’orribile nube che si chiama una battaglia. E questo, vero di tutti gli urti armati, è particolarmente applicabile a Waterloo.
Pure, nel pomeriggio, ad un certo punto, la battaglia si precisò.

VI • LE QUATTRO POMERIDIANE

Verso le quattro, la situazione dell’esercito inglese era grave. Il principe d’Orange comandava il centro, Hill l’ala destra, Picton la sinistra; il principe d’Orange, smarrito e intrepido, gridava ai belga-olandesi: Nassau!
Brunswick! Mai indietro! Hill, spossato, veniva ad addossarsi a Wellington e Picton era morto. Nello stesso minuto in cui gli inglesi portavan via ai francesi la bandiera del 105° reggimento di fanteria, i francesi uccidevano il generale Picton con una palla attraverso il capo.
La battaglia, per Wellington, aveva due caposaldi, Hougomont e la Haie-Sainte: Hougomont resisteva ancora, ma bruciava, e Haie-Sainte era stata presa; del battaglione tedesco che la difendeva sopravvivevano soltanto quarantadue uomini, e tutti gli ufficiali, meno cinque, erano morti o prigionieri. Tremila combattenti si massacrarono in quella casupola; un sergente delle guardie inglesi, primo pugilatore dell’Inghilterra, ritenuto invulnerabile dai suoi compagni, vi fu ucciso da un tamburino francese. Baring fu sloggiato, Alten sciabolato; parecchie bandiere andarono perdute, fra cui una della divisione Alten ed una del battaglione del Luneburgo, portata da un principe della famiglia Deux-Ponts. Gli scozzesi grigi non esistevano più; i dragoni pesanti di Ponsonby eran fatti a pezzi. Quella coraggiosa cavalleria aveva ripiegato sotto l’urto dei lancieri di Bro e dei corazzieri di Travers; di milleduecento cavalli ne rimanevano seicento e dei tre luogotenenti colonnelli due erano a terra, Hamilton ferito e Mater ucciso. Ponsonby era caduto, trafitto da sette colpi di lancia, Gordon era morto, Marsh era morto. Due divisioni, la quinta e la sesta, erano distrutte.
Intaccato Hougomont e presa Haie-Sainte, non restava più che un nodo, quello del centro, che resisteva sempre: Wellington lo rinforzò, chiamandovi Hill, da Merbe-Braine, e chiamandovi Chassé, da Braine-l’Alleud.
Il centro dell’esercito inglese, un po’ concavo, fittissimo e compattissimo, era situato in buona posizione, occupava la spianata di Mont-Saint-Jean, il villaggio dietro, davanti il pendìo, allora piuttosto aspro, s’addossava a quella forte casa di pietra che a quell’epoca era un bene demaniale di Nivelles e segna il punto d’incontro delle strade; una massa del sedicesimo secolo, così robusta, che i proiettili vi rimbalzavan sopra senza intaccarla.
Intorno alla spianata gli inglesi avevan tagliato qua e là le siepi, aprendo cannoniere nei biancospini, mettendo una bocca da fuoco fra i rami e intagliando feritoie nei cespugli. La loro artiglieria stava in agguato dietro le macchie; questo lavoro punico, incontestabilmente autorizzato dalla guerra che ammette l’imboscata, era così ben fatto, che Haxo, mandato dall’imperatore, alle nove del mattino, a riconoscere le batterie nemiche, non ne aveva visto nulla ed era tornato a dire a Napoleone che non vi erano ostacoli, all’infuori delle due barricate che chiudevano le strade di Nivelles e di Genappe.
Era la stagione in cui le messi son alte; sull’orlo della spianata un battaglione della brigata Kempt, il 95°, armato di carabine, era steso in mezzo alle spighe mature.
Così garantito e puntellato, il centro dell’esercito anglo-olandese era in buona posizione. Il solo pericolo era la foresta di Soignes, a quel tempo contigua al campo di battaglia e tagliata dagli stagni di Groenendael e di Boitsfort: un esercito non avrebbe potuto indietreggiare, senza frantumarsi; i reggimenti si sarebbero subito disgregati e l’artiglieria si sarebbe perduta negli stagni. La ritirata, secondo l’opinione di parecchi uomini del mestiere (contestata da altri, per dire il vero), sarebbe stata un fuggi fuggi.
Wellington aggiunse a quel centro una brigata di Chassé, levata all’ala destra, ed una di Wincke, levata all’ala sinistra, oltre alla divisione Clinton. Ai suoi inglesi, ai reggimenti di Halkett, alla brigata di Mitchell, alle guardie di Maitland, diede come appoggio e contrafforte la fanteria di Brunswick, il contingente di Nassau, gli annoveresi di Kielmansegge e i tedeschi d’Ompteda; disponeva di ventisei battaglioni: l’ala destra, come dice Charras, fu ripiegata dietro il centro. Una batteria enorme era stata mascherata da sacchi a terra nel punto dove trovasi oggi quello che si chiama «il museo di Waterloo»; inoltre, Wellington teneva in riserva, in una piega del terreno, i dragoni guardie del Somerset, millequattrocento cavalli. Era l’altra metà di quella cavalleria inglese, così meritatamente celebre; distrutto Ponsonby, restava Somerset.
La batteria che, se terminata, sarebbe stata quasi una ridotta, era disposta dietro il muricciuolo d’un giardino, rivestito in fretta con una copertura di sacchi di sabbia e di grosse zolle di terra. Quell’opera non era finita: era mancato il tempo di cingerla con una palizzata.
Wellington, inquieto ma impassibile, a cavallo tutto il giorno, nel medesimo atteggiamento, era un poco più avanti del vecchio mulino di Mont-Saint-Jean, che esiste ancora, sotto un olmo, che un inglese, vandalo entusiasta, comperò poi per duecento franchi, segandolo e portandolo via. Là Wellington fu freddamente eroico. Le palle da cannone piovevano e l’aiutante di campo Gordon era allora caduto al suo fianco; lord Hill, accennandogli un proiettile che scoppiava, gli disse: «Mylord, quali sono le vostre istruzioni e che ordini ci lascerete, se vi farete uccidere?» «Di fare come me,» rispose Wellington.
A Clinton, disse laconicamente: «Resister qui fino all’ultimo uomo.» La giornata prendeva visibilmente una brutta piega. Wellington gridava ai vecchi camerati di Talavera, di Vittoria e Salamanca: «Boys, si può pensare di cedere? Pensate alla vecchia Inghilterra!» Verso le quattro, la linea inglese indietreggiò. Ad un tratto non si vide più altro, sulla cresta della spianata, fuorché l’artiglieria ed i bersaglieri; il resto sparve. I reggimenti, scacciati dalle palle da cannone piene ed esplodenti dei francesi, ripiegarono in fondo, dove il terreno è ancor oggi tagliato dal sentiero privato della fattoria di Mont-Saint-Jean; con una retrocessione, la fronte di battaglia inglese scomparve, Wellington indietreggiò: «Principio di ritirata!» gridò Napoleone.

VII • NAPOLEONE DI BUON UMORE

L’imperatore, sebbene ammalato e disturbato a cavallo da un dolore, non era mai stato tanto di buon umore come in quel giorno; fin dal mattino, la sua impenetrabilità sorrideva. Il 18 giugno 1815, quell’anima profonda, dalla maschera marmorea, splendeva in modo abbagliante: colui ch’era stato triste ad Austerlitz, fu allegro a Waterloo. I grandi predestinati hanno siffatti controsensi.
Le nostre gioie sono ombra; il sorriso supremo è di Dio.
Ridet Caesar, Pompeius flebit, dicevano i legionari della legione Fulminatrice. Stavolta, Pompeo non doveva piangere; ma certo Cesare rideva.
Fin dalla vigilia, all’una di notte, mentre esplorava a cavallo, sotto l’uragano e la pioggia, in compagnia di Bertrand, le colline delle vicinanze di Rossomme, soddisfatto di vedere la lunga linea dei fuochi inglesi che illuminavan tutto l’orizzonte da Frischemont a Brainel’Alleud, gli era sembrato che il destino, da lui citato a comparire a data fissa su quel campo di Waterloo, fosse esatto al convegno. Aveva fermato il cavallo ed era rimasto qualche tempo immobile, guardando i lampi, in ascolto del tuono; e quel fatalista era stato sentito gettare nelle tenebre questa misteriosa frase: «Siamo d’accordo.
» Napoleone s’ingannava: non eran più d’accordo.
Non s’era concesso un minuto di sonno e tutti gli istanti di quella notte erano contrassegnati per lui da una gioia. Aveva percorso tutta la linea delle grandi guardie, fermandosi qua e là a parlare colle vedette; alle due e mezzo, vicino al bosco d’Hougomont, sentito il passo d’una colonna in marcia, aveva creduto per un momento che Wellington indietreggiasse, tanto che aveva detto a Bertrand: È la retroguardia inglese che indietreggia per svignarsela; farò prigionieri i seimila inglesi giunti testé da Ostenda. Discorreva con espansione ed aveva ritrovato la gaiezza dello sbarco del primo marzo, quando, accennando al gran maresciallo il contadino entusiasta del golfo Juan, aveva esclamato: Ebbene, Bertrand, ecco già un rinforzo! La notte dal 17 al 18 giugno, scherniva Wellington: Quell’inglesuccio ha bisogno d’una lezione, diceva Napoleone. La pioggia andava crescendo; mentre l’imperatore parlava, tuonava.
Alle tre e mezzo del mattino aveva perduto un’illusione: alcuni ufficiali mandati in ricognizione gli avevano annunciato che il nemico non faceva nessun movimento.
Nulla si muoveva; non era stato spento un solo fuoco del bivacco. L’esercito inglese dormiva e il silenzio era profondo, sulla terra; rumore solo in cielo. Alle quattro, gli era stato condotto davanti dagli esploratori un contadino, che aveva servito di guida a una brigata di cavalleria inglese, probabilmente la Vivian, che si recava a prender posizione al villaggio d’Ohain, all’estrema sinistra. Alle cinque, due disertori belgi gli avevan riferito d’aver abbandonato allora il loro reggimento e che l’esercito inglese aspettava la battaglia. Tanto meglio! aveva esclamato Napoleone. Preferisco di molto abbatterli, anziché respingerli.
La mattina, sulla scarpata all’angolo della strada di Plancenoit, sceso da cavallo in mezzo al fango, s’era fatto portare dalla fattoria di Rossomme un tavolo da cucina ed una sedia rustica, vi si era seduto, con un fascio di paglia per tappeto e aveva spiegato sul tavolo la carta del campo di battaglia dicendo a Soult: Che bella scacchiera!
Per le piogge della notte, i convogli di viveri, impantanati nelle strade sconvolte, non avevan potuto arrivare in mattinata e le truppe non avevano dormito, fradice d’acqua e digiune; la cosa non aveva impedito a Napoleone di gridare allegramente a Ney: Abbiamo dalla nostra novanta probabilità su cento. Alle otto, era stata recata la colazione dell’imperatore, che aveva invitato parecchi generali; e, mentre mangiavano, avevan raccontato che Wellington, l’antivigilia, s’era recato al ballo, a Bruxelles, in casa della duchessa Richmond. Soult, rude uomo di guerra dalla faccia d’arcivescovo, aveva detto: Il ballo è per oggi. L’imperatore aveva canzonato Ney, che diceva: Wellington non sarà tanto sciocco da aspettare vostra maestà; del resto, quest’era la sua abitudine.
Scherzava volentieri, dice Fleury di Chaboulon; Il fondo del suo carattere era d’umore giocondo, dice Gourgaud; Abbondava di arguzie, più stravaganti che spiritose, dice Beniamino Constant. Scherzi da gigante su cui val la pena di insistere: era stato lui a chiamare i suoi granatieri «i brontoloni»; dava loro pizzicotti sull’orecchio e tirava loro i baffi. L’imperatore non faceva altro che dispetti, è la frase d’uno di essi. Durante il misterioso tragitto dall’isola d’Elba alla Francia, il 27 febbraio, in alto mare, il brigantino da guerra francese Zeffiro aveva incontrato il brigantino Incostante, sul quale era nascosto Napoleone; avendo esso chiesto all’Incostante notizie di Napoleone, l’imperatore, che portava ancora in quel momento la coccarda bianca e amaranto seminata d’api, adottata all’isola d’Elba, aveva preso il portavoce, ridendo, e aveva risposto: L’imperatore sta bene. Chi ride in questo modo è in familiarità cogli eventi e Napoleone aveva avuto parecchi accessi di questo riso, durante la colazione di Waterloo. Dopo colazione s’era raccolto per un quarto d’ora; poi due generali s’eran seduti sul fascio di paglia colla penna in mano e un foglio di carta sulle ginocchia, e l’imperatore aveva dettato loro l’ordine di battaglia.
Alle nove, nel momento in cui l’esercito francese, scaglionato e messo in marcia su cinque colonne, s’era schierato colle divisioni su due linee, l’artiglieria fra una brigata e l’altra, con in testa le musiche che suonavano, fra il rullar dei tamburi e il clangore delle trombe, vasto, possente e allegro, mare d’elmi, di sciabole e di baionette sull’orizzonte, l’imperatore, commosso, aveva esclamato in due riprese: «Magnifico! Magnifico!» Fra le nove e le dieci e mezzo, cosa incredibile, tutto l’esercito aveva preso posizione e s’era schierato su sei linee che formavano, per ripetere l’espressione dell’imperatore «la figura di sei V». Pochi momenti dopo la formazione della fronte di battaglia, in mezzo a quel profondo silenzio da principio d’uragano che precede le mischie, l’imperatore, vedendo sfilare le tre batterie da dodici, distaccate per suo ordine dai tre corpi di Reille, d’Erlon e di Lobau e destinate ad iniziare l’azione, battendo Mont-Saint-Jean, dov’è l’intersezione delle strade di Nivelles e di Genappe, aveva battuto sulla spalla di Haxo, dicendogli: Ecco ventiquattro belle figliole, generale!
Sicuro del risultato, aveva incoraggiato con un sorriso, al suo passaggio davanti a lui, la compagnia di zappatori del primo corpo, che aveva scelto per barricarsi in Mont-Saint-Jean, non appena il villaggio fosse preso.
Tutta quella serenità era attraversata solo da una frase d’altera compassione; vedendo sulla sua sinistra, in una località dove oggi trovasi una gran tomba, raccogliersi coi loro superbi cavalli quei mirabili scozzesi grigi, aveva detto: Peccato!
Poi era salito a cavallo; recatosi oltre Rossomme aveva scelto per osservatorio una piccola cresta erbosa, a destra della strada da Genappe a Bruxelles, che fu la sua seconda sosta durante la battaglia; la terza, quella delle sette di sera, fra la Belle-Alliance e la Haie-Sainte è da deplorare. È un poggio piuttosto alto, che esiste ancora, dietro il quale la guardia era stata adunata, in un declivio della pianura. Intorno a quel poggio le palle da cannone rimbalzavano sulla massicciata della strada fino a Napoleone, che, come a Brienne, aveva sul capo il sibilo delle palle e delle schegge di mitraglia; vennero raccolti, quasi nel punto in cui stavano i piedi del suo cavallo, alcuni proiettili, corrosi, vecchie lame di sciabola e palle informi, rose dalla ruggine. Scabra rubingine.
Qualche anno fa vi si disseppellì una palla cava da sessanta libbre, ancor carica, la miccia rotta alla base; là l’imperatore diceva alla guida Lacoste, un contadino ostile e sgomento, che s’aggrappava alla sella d’un ussaro e, ad ogni carica di mitraglia, si voltava cercando di nascondersi dietro di lui: Stupido! Ti farai ammazzare nella schiena; vergogna! Colui che scrive queste righe trovò, scavando nella sabbia, entro la scarpata di quel poggio, i resti dell’imboccatura d’una bomba, disgregati dall’ossido di quarantasei anni, e alcuni vecchi tronconi di ferro che gli si spezzavan fra le dita, come bastoni di sambuco.
Le ondulazioni delle pianure variamente inclinate, dov’ebbe luogo lo scontro fra Napoleone e Wellington, non sono più, nessuno l’ignora, quel che erano il 18 giugno 1815. Sottraendo da quel campo di morte quanto serve per fargli un monumento, gli hanno tolto il suo vero rilievo, e la storia, sconcertata, non vi si raccapezza più; per glorificarlo, l’hanno sfigurato. Lo stesso Wellington, due anni dopo, rivedendo Waterloo, esclamò: M’hanno cambiato il campo di battaglia! Là dove trovasi oggidì la grande piramide di terra sormontata dal leone, v’era una cresta che, verso la strada di Nivelles, si raddolciva in una rampa praticabile, ma che, dalla parte di Genappe, era quasi una scarpata. L’elevazione di quella scarpata può esser misurata ancor oggi dall’altezza dei monticelli formati dalle due grandi sepolture tra cui è incassata la strada da Genappe a Bruxelles: una, la tomba inglese, a sinistra, l’altra, la tedesca, a destra. Non v’è alcuna tomba francese; per la Francia, tutta questa pianura è sepolcro. Grazie alle mille e mille carrettate di terra impiegate in quella collinetta di centocinquanta piedi d’altezza e di mezzo miglio di circuito, la spianata di Mont-Saint-Jean è oggi accessibile con dolce pendìo; il giorno della battaglia, soprattutto dalla parte di HaieSainte, era aspra e dirupata. Il versante era tanto ripido, che i cannonieri inglesi non vedevano sotto di sé la fattoria in fondo alla valletta, centro del combattimento; il 18 giugno 1815 le piogge avevano ancor più reso scoscesa quell’erta e il fango rendeva più complicata la salita, giacché, non solo ci si arrampicava, ma ci s’impantanava.
Lungo la cresta della spianata correva una specie di fossato, impossibile da indovinare a un osservatore lontano.
Che cos’era quel fossato? Diciamolo subito. Brainel’Alleud è un villaggio del Belgio, Ohain un altro; questi villaggi, nascosti entrambi nelle pieghe del terreno, sono congiunti da una strada di circa un miglio e mezzo, che attraversa una pianura ondulata e spesso entra e si sprofonda fra le colline come un solco, sì che in certi punti quella strada è un precipizio. Nel 1815, come oggi, quella strada solcava la cresta della spianata di Mont-Saint-Jean, fra le due strade alberate di Genappe e di Nivelles; solo, essa è ora allo stesso livello della pianura, mentre allora era una strada incassata, alla quale furono poi prese le due scarpate per la collina monumento.
Quella strada era ed è ancora in trincea nella maggior parte del suo percorso, profonda talvolta una dozzina di piedi, e le sue scarpate troppo ripide crollavano qua e là, soprattutto d’inverno, sotto gli acquazzoni; ne derivava perciò qualche disgrazia. All’ingresso di Braine-l’Alleud la strada era così stretta, che un passante v’era stato schiacciato da un carro, come Bernardo Debrye, mercante di testimonia una croce di pietra, eretta vicino al cimitero, col nome del morto, signor Bruxelles, e la data dell’infortunio febbraio 1637. Sulla spianata di Mont-Saint-Jean, poi, era tanto profonda, che un contadino, Matteo Nicaise, v’era stato schiacciato nel 1783 da un frammento della scarpata, come attesta un’altra croce di pietra, il sommo della quale è scomparso fra le zolle, ma di cui si può vedere ancor oggi il piedestallo rovesciato sul declivio erboso a sinistra della strada alberata, fra la Haie-Sainte e la fattoria di MontSaint-Jean.
In una giornata di battaglia, quella strada incassata che nulla indicava e che orlava la cresta di MontSaint-Jean, fosso in cima alla scarpata, carreggiata nascosta nel terreno, era invisibile, che val quanto dire terribile.

VIII • L’IMPERATORE FA UNA DOMANDA ALLA GUIDA LACOSTE

Dunque, la mattina di Waterloo, l’imperatore era contento. E aveva ragione; il piano di battaglia da lui concepito era, come abbiam constatato, realmente meraviglioso.
Una volta incominciata la battaglia, tutte le sue varie fasi, la resistenza d’Hougomont, la tenacia della Haie-Sainte, Bauduin ucciso, Foy messo fuori combattimento, l’inaspettata muraglia contro la quale s’era infranta la brigata Soye, la fatale storditaggine di Guilleminot, che non aveva né petardi né sacchi di polvere, l’impantanarsi delle artiglierie, i quindici cannoni senza scorta, rovesciati da Uxbridge in una strada incassata, lo scarso effetto delle bombe che cadevano nel campo inglese e che, sprofondando nel suolo ammollato dalle piogge, riuscivan solo a farne scaturire vulcani di fango, di modo che la mitraglia si mutava in pillacchere; l’inutilità della dimostrazione di Piré contro Braine-l’Alleud e tutta quella cavalleria, quindici squadroni, pressapoco annientata, l’ala destra inglese mal disturbata e l’ala sinistra mal intaccata, lo strano malinteso di Ney, il quale, anziché scaglionarle, ammassava le quattro divisioni del primo corpo su ventisette file di spessore, con una fronte di duecento uomini, esposti in tal modo alla mitraglia, le spaventose brecce delle palle da cannone in quelle masse, le colonne d’attacco disunite, la batteria d’infilata, bruscamente smascherata sul loro fianco, Bourgeois, Donzelot e Durutte compromessi, Quiot respinto, il luogotenente Vieux, l’ercole uscito dalla scuola politecnica, ferito nel momento in cui stava sfondando a colpi di scure la porta della Haie-Sainte, sotto il fuoco dominante della barricata inglese che sbarrava la svolta della strada da Genappe a Bruxelles, la divisione Marcognet, presa in mezzo tra la fanteria e la cavalleria, fucilata a bruciapelo fra le messi da Best e Pack, sciabolata da Ponsonby; la sua batteria di sette pezzi inchiodata, il principe di Sassonia Weimar che teneva e manteneva, malgrado il conte d’Erlon, Frischemont e Smohain, la bandiera del 105° presa, la bandiera del 45° presa, quell’ussaro nero prussiano, fermato dagli esploratori della colonna volante di trecento cacciatori che battevan la campagna tra Wavre e Plancenoit, le cose inquietanti dette da quell’uomo, il ritardo di Grouchy, i millecinquecento uomini uccisi in meno di un’ora nel frutteto di Hougomont e i milleottocento abbattuti in minor tempo ancora intorno alla Haie-Sainte; tutti questi tempestosi incidenti, nubi della battaglia davanti a Napoleone, avevano a stento turbato il suo sguardo e non avevano per nulla fatto oscurare quella faccia imperialmente imperturbabile.
Napoleone era avvezzo a guardar fisso la guerra; non faceva mai la straziante addizione in cifre del particolare; poco gl’importavano le cifre, purché dessero un totale: la vittoria. S’anco gli inizî erano malcerti, non se ne inquietava dal momento che si credeva signore e possessore della fine; sapeva attendere, credendosi imbattibile, e trattava il destino da pari a pari. Pareva dicesse alla sorte: «Non oserai.» Mezzo luce o mezzo ombra, Napoleone si sentiva protetto nel bene e tollerato nel male; aveva, o credeva dalla sua una connivenza, si potrebbe quasi dire una complicità degli eventi, equivalente all’antica invulnerabilità.
Eppure, quando si ha dietro di sé la Beresina, Lipsia e Fontainebleau, sembra si possa diffidare di Waterloo.
Un misterioso corrugar di sopracciglio diventa visibile sullo sfondo del cielo.
Nel momento in cui Wellington rinculò, Napoleone trasalì. Vide d’un subito sguarnirsi la spianata di Mont-Saint-Jean e sparire la fronte dell’esercito inglese: esso si ricomponeva, ma si ritirava. L’imperatore si sollevò a metà sulle staffe e il lampo della vittoria gli passò nello sguardo.
Wellington, addossato alla foresta di Soignes e distrutto, significava atterrare definitivamente l’Inghilterra da parte della Francia; significava la vendetta di Crécy, di Poitiers, di Malplaquet e di Ramillies. L’uomo di Marengo cancellava Azincourt.
Allora l’imperatore, come se meditasse una eventualità terribile, puntò ancor una volta il cannocchiale su tutti i punti del campo di battaglia. La sua guardia, coll’arme al piede, dietro di lui, l’osservava dal basso con una specie di venerazione; ed egli pensava. Esaminava i versanti, notava i pendii, scrutava i ciuffi d’alberi, i campi di segala, i sentieri, sembrava contasse ogni cespuglio. Guardò con una certa fissità le barricate inglesi delle due strade: due grandi abbattute d’alberi, quella della strada di Genappe, sotto la Haie-Sainte, armata di due cannoni, i soli di tutta l’artiglieria inglese che vedessero il fondo del campo di battaglia e quella della strada di Nivelles, dove luccicavano le baionette olandesi della brigata Chassé. Osservò vicino a quella barricata la vecchia cappella di Saint-Nicolas, dipinta in bianco, all’angolo della scorciatoia che va a Braine-l’Alleud, poi si chinò e parlò a bassa voce alla guida Lacoste; la guida rispose con un cenno del capo negativo, probabilmente perfido.
L’imperatore si risollevò e si raccolse.
Wellington aveva indietreggiato: restava soltanto da completare quella ritirata con una disfatta. Napoleone, volgendosi bruscamente, spedì a Parigi una staffetta a briglia sciolta, ad annunciarvi che la battaglia era vinta.
Napoleone era uno di quei genii da cui esce il tuono: aveva trovato in quel momento la sua folgore.
E diede ordine ai corazzieri di Milhaud d’impadronirsi della spianata di Mont-Saint-Jean.

IX • L’IMPREVISTO

Erano tremilacinquecento e tenevano una fronte d’un quarto di lega. Uomini giganteschi su cavalli colossali: ventisei squadroni in tutto. Dietro di essi in appoggio, la divisione di Lefebvre-Desnouettes, i centosei gendarmi scelti, i cacciatori della guardia, millecentonovantasette uomini, e i lancieri della guardia, ottocentottanta lance; portavan elmo senza criniera e corazza di ferro battuto, le pistole d’arcione nelle fonde e la lunga sciabola da taglio e da punta. La mattina, tutto l’esercito li aveva ammirati quando, alle nove, al suono dei clarini e mentre le bande intonavano il canto Vegliam sulla salvezza dell’impero, eran venuti a schierarsi in colonna serrata, con una batteria sul fianco e una al centro, in due file, fra la strada di Genappe e Frischemont, per prendere il loro posto di battaglia in quella seconda linea così saggiamente composta da Napoleone, che, avendo all’estremità sinistra i corazzieri di Kellermann ed all’estremità destra i corazzieri di Milhaud, aveva, per così dire, due ali di ferro.
L’aiutante di campo Bernard recò l’ordine dell’imperatore.
Ney sguainò la sciabola e prese il comando; gli enormi squadroni si mossero.
Allora si vide uno spettacolo grandioso. Tutta quella cavalleria, sciabole alzate, bandiere e trombe al vento, formata in colonna di divisione, scese, con un medesimo movimento, come un sol uomo, colla precisione d’un ariete di bronzo che apra una breccia, la collina della Belle-Alliance, si sprofondò nella terribile bassura dove già tanti uomini erano caduti e scomparve in mezzo al fumo; poi, uscendo da quell’ombra, riapparve dall’altra parte della valletta, sempre compatta e serrata, risalendo al gran trotto, attraverso un nembo di mitraglia che le pioveva sopra, lo spaventevole declivio fangoso di Mont-Saint-Jean. Salivano gravi, minacciosi e imperturbabili, e negli intervalli della moschetteria e della cannonata si sentiva quell’assordante scalpiccìo. Poiché erano due divisioni, formavan due colonne; la divisione Wathier teneva la destra e la divisione Delord la sinistra.
Da lontano, si sarebbe creduto di veder allungarsi verso la cresta della spianata due immensi colubri d’acciaio: fu come un prodigio che attraversasse la battaglia.
Non s’era visto più nulla di simile, dopo la presa della grande ridotta della Moscova da parte della cavalleria pesante; mancava Murat, ma v’era Ney. Sembrava quella massa si fosse fatta mostro ed avesse un’anima sola; ciascun squadrone ondeggiava, si gonfiava come un anello del polipo, si poteva scorgere attraverso una grande nuvola di fumo, che si lacerava qua e là; era una confusione d’elmi, di grida e di sciabole, un tempestoso sobbalzar di groppe di cavalli tra le cannonate e le fanfare, un tumulto disciplinato e terribile: e al disopra le corazze, come le scaglie dell’idra.
Questi racconti sembrano di un’altra età. Certo, qualcosa di simile a quella visione appariva nelle vecchie epopee orfiche, che narrano degli uomini-cavalli, gli antichi ippantropi, titani dalla faccia umana e dal petto equino, il galoppo dei quali scalava l’Olimpo, orribili, invulnerabili e sublimi: dèi e bestie.
Bizzarra coincidenza numerica, ventisei battaglioni si preparavano a ricevere l’urto di ventisei squadroni.
Dietro la cresta della spianata, all’ombra della batteria mascherata, la fanteria inglese, formata in tredici quadrati di due battaglioni ciascuno sopra due linee, sette sulla prima e sei sulla seconda, col calcio del fucile contro la spalla, prendendo di mira quel che stava per arrivare, calma, muta ed immobile, aspettava. Non vedeva i corazzieri, i corazzieri non la vedevano; ascoltava salire quella marea d’uomini e sentiva accrescersi il fragore dei tremila cavalli, la percossa alterna e simmetrica degli zoccoli al gran trotto, il fremere delle corazze, il tintinnìo delle sciabole e una specie di grande anelito selvaggio.
Vi fu un silenzio terribile; poi, subitamente, una lunga fila di braccia alzate che brandivan la sciabola apparve al disopra della cresta, poi gli elmi, trombe e bandiere e tremila teste dai baffi grigi, che gridavano: «Viva l’imperatore!» infine tutta quella cavalleria sboccò sulla spianata, e parve il sopraggiungere d’un terremoto.
Ad un tratto, cosa tragica, alla sinistra degli inglesi, alla nostra destra, la testa di colonna dei corazzieri s’impennò con uno spaventoso clamore. Giunti al punto culminante della cresta, stremati, abbandonati alla loro furia e alla loro corsa sterminatrice sui quadrati e sui cannoni, i corazzieri s’eran visto davanti, fra sé e gli inglesi, un fossato, anzi una fossa: era la strada incassata d’Ohain.
Momento spaventoso. Il precipizio era lì, inatteso e spalancato, a picco sotto le zampe dei cavalli, profondo due tese fra la duplice scarpata; la seconda fila vi spinse dentro la prima, la terza vi spinse la seconda. I cavalli si rizzavano e si buttavano indietro, cadendo sulla schiena e dimenando in aria le quattro zampe, schiacciando e ribaltando i cavalieri. Impossibile indietreggiare.
L’intera colonna era un proiettile e la forza destinata a schiacciare gli inglesi schiacciò i francesi; l’inesorabile baratro non poteva arrendersi se non colmato e cavalieri e cavalli vi rotolarono alla rinfusa, fracassandosi gli uni cogli altri e formando una sola massa di carne; poi quando quella fossa fu piena d’uomini viventi, fu possibile camminar loro sopra, ed il resto passò. Quasi un terzo della brigata Dubois precipitò in quell’abisso.
Questo episodio segnò l’inizio della battaglia perduta.
Una tradizione locale, esagerata evidentemente, dice che duemila cavalli e millecinquecento uomini rimasero sepolti nella strada incassata d’Ohain; questa cifra, verosimilmente, comprende tutti gli altri cadaveri gettati in quel baratro il giorno dopo il combattimento.
Notiamo di sfuggita che quella brigata Dubois, così funestamente messa alla prova, era la stessa che un’ora prima, caricando da sola, s’era impadronita della bandiera del battaglione del Luneburgo.
Napoleone, prima d’ordinare quella carica dei corazzieri di Milhaud, aveva scrutato il terreno; ma non aveva potuto scorgere quella strada in trincea, che non formava la minima ruga alla superficie del suolo. Pure, avvisato e messo in sospetto dalla cappelletta bianca che ne occupa l’angolo colla strada di Nivelles, aveva fatto, probabilmente nell’eventualità d’un ostacolo, una domanda alla guida Lacoste; e la guida aveva risposto di no. Si potrebbe quasi dire che da quel cenno del capo d’un contadino sia uscita la rovina di Napoleone; ma dovevan sorgere ancora altre fatalità.
Era possibile che Napoleone vincesse quella battaglia?
No, rispondiamo. Perché? Per via di Wellington?
Per via di Blücher? No: per via di Dio.
Bonaparte vincitore a Waterloo, non era più ammissibile dalla legge del secolo decimonono; stava preparandosi un’altra serie di fatti, nei quali non v’era più posto per Napoleone. Da molto tempo la cattiva volontà degli eventi s’era manifestata: era tempo che quell’uomo cadesse.
L’eccessivo peso di quell’uomo nel destino umano turbava l’equilibrio. Quell’individuo contava da solo più di tutto il resto dell’universo; e codeste pletore di tutta la vitalità umana concentrata in una sola testa, di tutto il mondo che sale nel cervello d’un uomo, sarebbero mortali per la civiltà, se dovessero durare. Era giunto per l’incorruttibile equità suprema il momento di riflettere.
Probabilmente, i principî e gli elementi dai quali dipendevano le gravitazioni regolari nell’ordine morale come nell’ordine materiale, si lagnavano; il sangue fumante, il rigurgitare dei cimiteri, le madri in lagrime sono arringhe terribili; e quando la terra soffre d’un sovraccarico, vi sono misteriosi gemiti dell’ombra, che l’abisso sente.
Napoleone era stato denunciato nell’infinito e la sua caduta era decisa. Egli era d’ostacolo a Dio.
Waterloo non è una battaglia: è il mutamento di fronte dell’universo.

X • LA SPIANATA DI MONT-SAINT-JEAN

Contemporaneamente al precipizio, si smascherò la batteria.
Sessanta cannoni e tredici quadrati fulminavano a bruciapelo i corazzieri: l’intrepido Delord fece il saluto militare alla batteria inglese.
Tutta l’artiglieria volante inglese era rientrata al galoppo nei quadrati. I corazzieri non ebbero nemmeno un istante di sosta; il disastro della strada incassata li aveva decimati, ma non scoraggiati. Eran di quegli uomini che, diminuendo di numero, aumentano di coraggio.
Solo la colonna Wathier aveva sofferto del disastro; la colonna Delord, che Ney aveva fatto poggiare verso sinistra, come se presentisse l’agguato, era giunta intera, ed i corazzieri si precipitarono sui quadrati inglesi, ventre a terra, a briglia sciolta, colla sciabola fra i denti e la pistola in pugno: ecco in che modo si svolse l’attacco.
Vi sono momenti, nelle battaglie, in cui l’anima indurisce l’uomo fino al punto di mutare il soldato in statua, in cui tutta quella carne si fa granito. I battaglioni inglesi, assaliti disperatamente, non si mossero d’un palmo.
Allora si vide una cosa spaventosa. Tutti i lati dei quadrati inglesi furono assaliti contemporaneamente e un vortice frenetico li avvolse, ma quella fredda fanteria rimase impassibile. La prima fila, col ginocchio a terra, riceveva i corazzieri sulle baionette e la seconda fila li fucilava; dietro la seconda fila, i cannonieri caricavano i pezzi e la fronte del quadrato s’apriva, lasciava passare un’eruzione di mitraglia e si richiudeva. I corazzieri rispondevano schiacciando; i loro grossi cavalli s’impennavano, scavalcavano le file, saltavano al di là delle baionette e ricadevano, giganteschi, in mezzo a quei quattro muri viventi; se le cannonate facevan dei vuoti fra i corazzieri, i corazzieri facevan delle brecce nei quadrati.
File intere d’uomini sparivano, stritolate sotto i cavalli e le baionette s’immergevano nei ventri di quei centauri; donde una deformità di ferite quale non si vide mai, forse, altrove. I quadrati, corrosi da quella cavalleria forsennata, si restringevano senza vacillare e, inesauribili di mitraglia, pareva esplodessero in mezzo agli assalitori.
L’immagine di quel combattimento era mostruosa; quei quadrati non eran più battaglioni, erano crateri; quei corazzieri non eran più corazzieri, eran tempesta.
Ogni quadrato era un vulcano assalito da una nube: la lava si batteva contro la folgore.
Il quadrato estremo di destra, il più esposto di tutti, perché non fiancheggiato, fu quasi annientato fin dai primi urti. Era formato dal 75° reggimento d’highlanders; nel centro di esso il suonatore di cornamusa, intanto che intorno a lui si sterminavano, abbassando in una profonda disattenzione lo sguardo malinconico, pieno di riflessi delle foreste e dei laghi, seduto sopra un tamburo, col pibroch sotto il braccio, suonava i motivi della montagna. Quegli scozzesi morivano pensando al Ben Lothian, come i greci pensando ad Argo. La sciabola d’un corazziere, abbattendo il pibroch e il braccio che lo portava, fece cessare il canto, uccidendo il cantore.
I corazzieri, relativamente poco numerosi, assottigliati dalla catastrofe del precipizio, avevan là contro quasi tutto l’esercito inglese; ma si moltiplicavano ed ogni uomo ne valeva dieci. Nel frattempo, alcuni battaglioni annoveresi ripiegarono; Wellington lo vide e pensò alla sua cavalleria. Se Napoleone, in quello stesso momento, avesse pensato alla sua fanteria, avrebbe vinto la battaglia; quella dimenticanza fu il suo grande errore fatale.
Ad un tratto i corazzieri, da assalitori si sentirono assaliti: avevano a tergo la cavalleria inglese. Davanti ad essi i quadrati, alle spalle Somerset, vale a dire i millequattrocento dragoni guardie. Somerset aveva alla destra Dornberg, coi cavalleggeri tedeschi, ed alla sinistra Trip, coi carabinieri belgi; ed i corazzieri attaccati di fianco e di fronte, davanti e dietro, dalla fanteria e dalla cavalleria, dovettero far fronte da ogni lato. Ma che importava loro? Erano un turbine e il loro ardire divenne indescrivibile.
Oltre a ciò, avevan dietro di sé la batteria, sempre tuonante: e non ci voleva meno di questo, perché fossero feriti nella schiena. Una delle loro corazze, bucate alla scapola sinistra da una scheggia di mitraglia, è visibile nella collezione chiamata il museo di Waterloo.
Per simili francesi, non ci voleva meno di simili inglesi. Non fu più una mischia, ma una lava, una furia, un vertiginoso trasporto d’anime e di coraggio, un uragano di spade simili a lampi; in un attimo, i millequattrocento dragoni furono soltanto ottocento, e Fuller, il loro tenente colonnello, cadde morto. Ney accorse coi lancieri e coi cacciatori di Lefebvre-Desnouettes e la spianata di Mont-Saint-Jean fu presa e ripresa e ancor presa; i corazzieri lasciavan la cavalleria per tornare alla fanteria o, per dir meglio, tutto quel formidabile groviglio si batteva, senza che gli uni lasciassero andare gli altri. I quadrati resistevan sempre. Vi furono dodici assalti e Ney ebbe quattro cavalli uccisi sotto di lui; la metà dei corazzieri rimase sul campo, in quella lotta che durò due ore.
L’esercito inglese ne fu profondamente scosso.
Non v’è dubbio che, se non fossero stati indeboliti al primo cozzo dal disastro della strada incassata, i corazzieri avrebbero sfondato il centro e decisa la vittoria. Quella cavalleria straordinaria fece rimanere di sasso Clinton, che pure aveva veduto Talavera e Badajoz; Wellington, vinto per tre quarti, ammirava con calma eroica e diceva a bassa voce: «Sublime!» I corazzieri annientarono sette quadrati su tredici, presero ed inchiodarono sessanta pezzi d’artiglieria e tolsero ai reggimenti inglesi sei bandiere, che tre corazzieri e tre cacciatori della guardia andarono a portare all’imperatore, davanti alla fattoria della Belle-Alliance.
La situazione di Wellington era peggiorata. Quella strana battaglia era come un duello fra due feriti accaniti che, pur combattendo e tenendosi sempre testa, vadano entrambi perdendo il sangue: quale dei due cadrà per il primo?
La lotta della spianata continuava. Fin dove giunsero i corazzieri? Nessuno saprebbe dirlo; ma è certo che, il giorno dopo la battaglia, un corazziere e il suo cavallo furono trovati morti nell’armatura della pesa pubblica di Mont-Saint-Jean, nel punto stesso in cui s’incontrano e si tagliano le quattro strade di Nivelles, di Genappe, di La Hulpe e di Bruxelles. Quel cavaliere aveva attraversato le linee inglesi. Uno degli uomini che tolsero di là quel cadavere vive ancora a Mont-SaintJean e si chiama Dehaze; aveva allora diciott’anni.
Wellington si sentiva in bilico: la crisi era vicina.
I corazzieri non erano riusciti nello scopo, nel senso che il centro non era stato sfondato; la spianata apparteneva a tutti e a nessuno, ma rimaneva in realtà, per la massima parte, agli inglesi. Wellington teneva il villaggio e la pianura dominante, Ney teneva soltanto la cresta e il pendìo; da ambo i lati i combattimenti sembravano radicati in quel suolo di morte. Ma l’indebolimento degli inglesi pareva irrimediabile e l’emorragia di quell’esercito era orribile. Kempt, all’ala sinistra, insisteva per aver rinforzi: Non ve ne sono, rispondeva Wellington, si faccia ammazzare! Quasi nello stesso istante, singolare accostamento che dipinge l’esaurimento dei due eserciti, Ney chiedeva fanteria a Napoleone e Napoleone esclamava: Fanteria? E dove vuole che la prenda?
Vuole che la fabbrichi?
Pure, l’esercito inglese era più gravemente ammalato.
Le furiose spinte di quei grossi squadroni dalle corazze ferrate e dai petti d’acciaio avevan stritolato la fanteria: pochi uomini intorno ad una bandiera indicavano il posto d’un reggimento e certi battaglioni erano comandati solo da un capitano o da un tenente; la divisione Alten, già tanto maltrattata alla Haie-Sainte, era quasi distrutta, gli intrepidi belgi della brigata Van Kluze seminavano coi loro corpi i campi di segale, lungo la strada di Nivelles, e quasi più nulla rimaneva di quei granatieri olandesi che, nel 1811, frammisti in Spagna alle nostre file, combattevano Wellington, e che nel 1815, collegati cogli inglesi, combattevano Napoleone. Le perdite d’ufficiali erano considerevoli. Lord Uxbridge, che l’indomani fece seppellire la propria gamba, aveva un ginocchio fracassato; e se dalla parte dei francesi, in quella lotta dei corazzieri, Delord Lhéritier, Colbert, Dnop, Traves e Blancard erano fuori combattimento, dalla parte degli inglesi Alten era ferito, Barne ferito, Delancey morto, Von Merlen morto, Ompteda morto, tutto lo stato maggiore di Wellington era decimato e l’Inghilterra aveva la peggio in quel sanguinoso equilibrio. Il secondo reggimento delle guardie a piedi aveva perduto cinque tenenti colonnelli, quattro capitani e tre alfieri; il primo battaglione del 30° fanteria aveva perduto ventiquattro ufficiali e centodieci soldati; il 79° da montagna aveva ventiquattro ufficiali feriti, diciotto ufficiali morti, quattrocentocinquanta soldati morti. Gli ussari annoveresi di Cumberland, tutto un reggimento, con alla testa il suo colonnello Hacke, il quale doveva più tardi venir processato e radiato dai ruoli, avevan voltato le spalle alla mischia ed erano in fuga nella foresta di Soignes, seminando lo scompiglio fino a Bruxelles. I carriaggi, le prolunghe, i bagagliai, le carrette piene di feriti, vedendo che i francesi guadagnavan terreno e s’avvicinavano alla foresta, vi si precipitavano; gli olandesi, sciabolati dalla cavalleria francese, gridavano: All’armi! e da Vert-Cocou fino a Groenendael, sopra una lunghezza di quasi due leghe nella direzione di Bruxelles v’era, stando ai testimoni che esistono ancora, una confusione di fuggiaschi.
Il panico fu tale, che raggiunse il principe di Condé a Malines e Luigi XVIII a Gand. Eccettuate la debole riserva scaglionata dietro l’ambulanza stabilita nella fattoria di Mont-Saint-Jean e le brigate Vivian e Vandeleur, che fiancheggiavano l’ala sinistra, Wellington non aveva più cavalleria; molte batterie erano smontate. Questi fatti sono confessati da Siborne; e Pringle, esagerando il disastro, arriva perfino a dire che l’esercito anglo-olandese era ridotto a trentaquattromila uomini. Il duca di ferro restava calmo; ma gli si erano sbiancate le labbra.
Il delegato austriaco Vincent e il delegato spagnuolo Avala, presenti alla battaglia nello stato maggiore inglese, credettero il duca perduto: alle cinque, Wellington guardò l’orologio e fu sentito mormorare questa cupa frase: «O Blücher, o la notte!» In quel momento, all’incirca, una lontana linea di baionette lampeggiò sulle alture, dalla parte di Frischemont.
Eccoci allo scioglimento di questo gigantesco dramma.

XI • CATTIVA GUIDA A NAPOLEONE, BUONA A BÜLOW

È noto il doloroso inganno di Napoleone: Grouchy sperato, e Blücher sopraggiunto. La morte, invece della vita.
Il destino ha di queste svolte: al posto dell’atteso trono del mondo, si scorge Sant’Elena. Se il pastorello che serviva di guida a Bülow, luogotenente di Blücher, gli avesse consigliato di sboccare dalla foresta sopra Frischemont, anziché sotto Plancenoit, la forma del secolo decimonono sarebbe forse stata diversa, poiché Napoleone avrebbe vinta la battaglia di Waterloo. Da qualunque altra strada che non fosse quella sotto Plancenoit l’esercito prussiano avrebbe fatto capo ad un precipizio insormontabile dalle artiglierie e Bülow non sarebbe giunto: e con un’ora di ritardo (lo dichiara il generale prussiano Muffling) Blücher non avrebbe più trovato Wellington in piedi e «la battaglia sarebbe stata perduta».
Come si vede, era tempo che Bülow arrivasse; e del resto, aveva tardato molto. Aveva bivaccato a DionleMont, ed era partito fin dall’alba, ma le strade erano impraticabili e le divisioni s’erano impantanate; i solchi delle carreggiate giungevano fino ai mozzi delle ruote dei cannoni. Inoltre, era stato necessario passare la Dyle sullo stretto ponte di Wavre; e poiché la via che conduceva al ponte era stata incendiata dai francesi, i cassoni e le carrette dell’artiglieria, non potendo passare fra due ali di case in fiamme, avevano dovuto aspettare che fosse spento il fuoco. A mezzogiorno, l’avanguardia di Bülow non aveva potuto raggiungere Chapelle-Saint-Lambert.
Se l’azione fosse incominciata due ore prima, sarebbe finita alle quattro e Blücher sarebbe caduto in pieno sopra una battaglia già vinta da Napoleone. Siffatti sono i casi immensi, proporzionati ad un infinito che ci sfugge. Fin da mezzogiorno l’imperatore, per il primo, aveva scorto col suo cannocchiale qualche cosa all’estremo orizzonte, che aveva attirato la sua attenzione; aveva detto: «Vedo laggiù una nube che mi dà l’aria di esser un nerbo di truppe.» Poi aveva chiesto al duca di Dalmazia: «Soult, che cosa vedete verso Chapelle-Saint-Lambert?» e il maresciallo, impugnando il cannocchiale, aveva risposto: «Quattro o cinquemila uomini, sire: Grouchy, evidentemente.» Pure, quella cosa restava immobile, in mezzo alla nebbia. Tutti i cannocchiali dello stato maggiore avevano studiato la «nube» segnalata dall’imperatore; alcuni avevano detto: «Sono colonne che fanno una sosta,» altri, la maggior parte, avevan detto: «Sono alberi.» La verità è che la nube non si muoveva, e l’imperatore aveva distaccato in ricognizione verso quel punto oscuro la divisione di cavalleria leggera di Domon.
Infatti, Bülow non s’era mosso. La sua avanguardia era debolissima e non poteva far nulla; doveva attendere il grosso del corpo d’esercito ed aveva l’ordine di concentrarsi, prima d’entrare in linea. Ma alle cinque, visto il pericolo di Wellington, Blücher ordinò a Bülow d’attaccare e disse questa frase significativa: «Bisogna far prendere fiato all’esercito inglese.» Poco dopo, le divisioni Losthin, Hiller, Hacke e Ryssel si spiegavano in linea davanti al corpo di Lobau; la cavalleria del principe Guglielmo di Prussia sboccava dal bosco di Parigi, Plancenoit era in fiamme e le cannonate prussiane incominciavano a piovere fin nelle file della guardia, in riserva dietro Napoleone.

XII • LA GUARDIA

Il resto è noto: l’irruzione d’un terzo esercito, la battaglia spostata, ottantasei bocche da fuoco che tuonano contemporaneamente, Pirch che sopravviene con Bülow, la cavalleria di Zieten, guidata da Blücher in persona, i francesi ricacciati, Marcognet spazzato via dalla spianata d’Ohain, Durutte sloggiato da Papelotte, Donzelot e Quiot costretti a indietreggiare, Lobau preso d’infilata, una nuova battaglia che si precipita, sul cader della notte, sopra i nostri reggimenti smantellati, l’intera linea inglese che riprende l’offensiva e si spinge avanti, la gigantesca breccia aperta nell’esercito francese, la mitraglia inglese e la prussiana che s’aiutan fra loro, lo sterminio, il disastro sulla fronte, sui fianchi e la guardia, che entra in linea sotto quello spaventoso crollo.
Poiché sentiva d’andare a morire, essa gridò: «Viva l’imperatore!» La storia non ha nulla di più commovente di codesta agonia che esplode in acclamazioni.
Il cielo era stato coperto tutto il giorno. All’improvviso, in quello stesso momento (erano le otto di sera), le nuvole si squarciarono sull’orizzonte e lasciaron passare, attraverso gli olmi della strada di Nivelles, il grande e sinistro fulgore del sole di porpora che tramontava: ad Austerlitz, era stato visto sorgere.
Ogni battaglione della guardia, in quel tragico finale, era comandato da un generale: erano presenti Friant, Michel, Roguet, Harlet, Mallet, Poret di Morvan.
Quando gli alti colbacchi dei granatieri della guardia, col gran fregio metallico in forma d’aquila, apparvero, simmetrici, allineati, tranquilli e superbi nella foschia di quella zuffa, il nemico sentì il rispetto della Francia; credette di vedere venti vittorie entrare sul campo di battaglia ad ali spiegate e coloro ch’eran vincitori, ritenendosi vinti, indietreggiarono. Ma Wellington gridò: In piedi, guardie, e mirate giusto! e il reggimento delle guardie, sdraiato dietro le siepi, s’alzò; un nugolo di mitraglia crivellò la bandiera tricolore, fremendo intorno alle nostre aquile, tutti si scagliarono e incominciò la suprema carneficina. La guardia imperiale sentì nell’ombra che l’esercito fuggiva intorno ad essa, sentì il grande crollo della disfatta, sentì il Si salvi chi può, che aveva sostituito il Viva l’imperatore; e, colla fuga dietro di sé, continuò ad avanzare, sempre più fulminata e sempre più morente ad ogni passo che faceva. Non vi furono né dubbiosi, né timidi, e il soldato, fu eroe al pari del generale; non uno mancò al suicidio.
Ney, smarrito, grande di tutta l’altezza della morte accettata, s’offriva a tutti i colpi, in quella tormenta. Là ebbe il quinto cavallo ucciso sotto di sé; sudato, cogli occhi fiammeggianti e la schiuma alle labbra, coll’uniforme sbottonata, una spallina tagliata in mezzo dalla sciabolata d’un horse guard e l’aquila metallica della decorazione ammaccata da una palla, sanguinante, infangato e magnifico, con in pugno una spada spezzata, diceva: Venite a vedere come muore un maresciallo di Francia sul campo di battaglia! Invano: egli non morì.
Feroce e indignato, buttava in viso a Drouet d’Erlon questa domanda: E tu, non ti fai uccidere? E gridava in mezzo a tutte quelle cannonate che schiacciavano un pugno d’uomini: Non v’è dunque nulla per me? Oh, vorrei che tutte queste palle inglesi m’entrassero nel ventre! Tu eri serbato a palle francesi, disgraziato!

XIII • LA CATASTROFE

La disfatta, dietro la guardia, fu tremenda.
L’esercito ripiegò bruscamente da tutte le parti ad un tempo, da Hougomont, dalla Haie-Sainte, da Papelotte e da Plancenoit. Il grido: Tradimento! fu seguito dal grido: Si salvi chi può! Lo sbandarsi d’un esercito è simile al disgelo: tutto s’inflette, si fende, scricchiola, galleggia, rotola, s’urta, s’affretta, precipita; è una disgregazione incredibile. Ney, fattosi prestare un cavallo, vi balza sopra e, senza cappello, senza cravatta, senza spada si mette di traverso sulla strada di Bruxelles, fermando contemporaneamente inglesi e francesi; tenta di trattenere l’esercito, lo chiama e l’insulta e sembra s’aggrappi alla disfatta. Ma viene lasciato indietro; i soldati lo fuggono, gridando: Viva il maresciallo Ney! Due reggimenti di Durutte vanno e vengono, sgomenti e come sballottati fra le sciabole degli ulani ed i fucili delle brigate di Kempt, di Best, di Pack e di Rylandt. La peggior mischia è la disfatta poiché gli amici s’uccidono fra loro, per sfuggire, e gli squadroni e i battaglioni si frangono e disperdono gli uni contro gli altri, enorme schiuma della battaglia. Lobau ad una estremità e Reille all’altra sono travolti dall’ondata: invano Napoleone erge una muraglia con quello che gli rimane della guardia; invano impiega in un ultimo sforzo i suoi squadroni di scorta.
Quoit indietreggia davanti a Vivian, Kellermann davanti a Vendeleur, Lobau davanti a Bülow, Morand di fronte a Pirch, Domon e Subervic di fronte al principe Guglielmo di Prussia; Guyot, che ha condotto alla carica gli squadroni dell’imperatore, cade sotto i piedi dei dragoni inglesi. Napoleone corre al galoppo sulle orme dei fuggiaschi, li arringa, li sollecita, li minaccia e li supplica; ma tutte quelle bocche che al mattino gridavano: Viva l’imperatore! rimangono spalancate: è molto se lo riconoscono.
La cavalleria prussiana, sopraggiunta in quel mentre, si slancia, vola, sciabola, taglia, fa a pezzi, uccide, stermina. I carriaggi si danno alla fuga in corsa, i cannoni scappano; i soldati dell’artiglieria staccano i cassoni e ne prendono i cavalli per fuggire: le carrette ribaltate colle quattro ruote in aria ingombrano la strada e sono cagione di massacro. Ci si schiaccia, ci si pigia, si cammina sui morti e sui vivi; le braccia sono come paralizzate e una vertiginosa moltitudine riempie le strade, i sentieri, i ponti, le pianure, le colline, le valli e i boschi, strabocchevolmente ingombrati da quell’evasione di quarantamila uomini. Urli, disperazioni, zaini e fucili buttati nei campi di segale, non più camerati, non più ufficiali, non più generali, uno spavento inesprimibile, Zieten che sciabola la Francia a suo piacimento, i leoni diventati pecore: ecco che cosa fu quella fuga.
A Genappe venne fatto un tentativo di resistere, di far fronte, di tener duro. Lobau riunì trecento uomini e venne barricato l’ingresso del villaggio; ma alla prima raffica della mitraglia prussiana tutti si diedero alla fuga e Lobau fu preso. Si vede ancor oggi quella scarica di mitraglia impressa sulle facciate d’una vecchia bicocca in mattoni, a destra della strada, pochi minuti prima d’entrare in Genappe. I prussiani si gettarono in Genappe, certo furiosi d’esser così poco vincitori, e l’inseguimento fu mostruoso, perché Blücher aveva ordinato lo sterminio. Era stato Roguet a dare quel tristo esempio di minacciare di morte qualunque granatiere francese che gli avesse portato un prigioniero prussiano: ma Blücher superò Roguet. Il generale della giovane guardia, Duhesme, addossato all’uscio d’un albergo di Genappe, cedette la spada a un ussaro della Morte, che la prese ed uccise il prigioniero. La vittoria finì coll’assassinio dei vinti.
Poiché siamo la storia, puniamo: il vecchio Blücher si disonorò. Ma quella ferocia portò al colmo il disastro: la disperata rotta attraversò Genappe, attraversò QuatreBras, attraversò Gosselies, attraversò Frasnes, attraversò Charleroi, attraversò Thuin e si fermò solo alla frontiera.
Ahimè, chi fuggiva in quel modo? La grande armata!
Quella vertigine, quel terrore, quel rovinìo del maggior coraggio che abbia mai fatto stupire la storia, sarebbero dunque senza causa? No: l’ombra d’una enorme mano destra si proietta su Waterloo. È la giornata del destino, prodotta da una forza che sta al disopra dell’uomo; per questo le teste si curvano sgomente, per questo le anime grandi cedono la spada; coloro che avevan vinto l’Europa caddero atterrati senza aver più nulla da dire e da fare, perché sentirono nell’ombra una presenza terribile.
Hoc erat in fatis. Quel giorno, si mutò la prospettiva del genere umano: Waterloo è il cardine del secolo decimonono. La scomparsa del grand’uomo era necessaria all’avvento del gran secolo e qualcuno al quale non si può ribattere se ne incaricò. Il panico degli eroi si spiega: nella battaglia di Waterloo, più che una nube, è stata una meteora, è passato Dio.
Sul cader della notte, in un campo vicino a Genappe, Bernard e Bertrand agguantarono per un lembo della giubba e fermarono un uomo torvo, pensoso e sinistro il quale, trascinato fin lì dalla corrente della disfatta, era sceso di sella e, dopo aver passato sotto il braccio la briglia del cavallo, se ne tornava collo sguardo smarrito, solo, verso Waterloo. Era Napoleone che tentava ancora d’andare avanti, immenso sonnambulo di quel sogno crollato.

XIV • L’ULTIMO QUADRATO

Alcuni quadrati della guardia, immobili nell’impetuosa corrente della disfatta, come le rocce nell’acqua che scorre, resistettero fino a notte. Scendeva la notte e, con lei, la morte; essi attesero la duplice ombra e, incrollabili, se ne lasciarono ravvolgere: ciascun reggimento, isolato dagli altri, rotto da ogni parte, periva per conto proprio. Per quest’azione estrema, alcuni avevan preso posizione sulle alture di Rossomme, altri nella pianura di Mont-Saint-Jean e colà, abbandonati, vinti e terribili, quei sinistri quadrati finivano in una grandiosa agonia. Ulma, Wagram, Jena e Friedland morivano con essi.
Al crepuscolo, verso le nove di sera, sul limite inferiore della spianata di Mont-Saint-Jean, ne rimaneva uno. In quella valletta funesta, ai piedi di quel pendio superato dai corazzieri ed ora inondato dalle masse inglesi, sotto i fuochi convergenti della vittoriosa artiglieria nemica, sotto una spaventosa densità di proiettili, quel quadrato lottava. Era comandato da un oscuro ufficiale, chiamato Cambronne; ad ogni scarica, il quadrato si faceva più piccolo e rispondeva, ribattendo alla mitraglia colla fucileria e restringendo sempre più i suoi quattro muri. Da lungi i fuggiaschi, quando si fermavano a riprender fiato, udivano nelle tenebre quel sinistro tuono decrescente.
Quando quella legione non fu più che un manipolo, quando la loro bandiera non fu più che un brandello, quando i loro fucili senza munizioni non furono più che bastoni e il mucchio dei morti fu più grande del gruppo dei vivi, vi fu fra i vincitori una specie di terrore sacro, intorno a quei sublimi moribondi, e l’artiglieria inglese, riprendendo fiato, tacque. Fu una specie di tregua. Quei combattenti avevano intorno ad essi come un formicolio di spettri, profili d’uomini a cavallo, nere sagome di cannoni, mentre attraverso le ruote e gli affusti scorgevano il cielo ormai sereno; la colossale testa da morto che gli eroi intravedono sempre, nel fumo dello sfondo della battaglia, andava avanzando su di essi e li guardava. Poterono sentire nell’ombra crepuscolare che venivan caricati i cannoni, mentre le micce accese, simili ad occhi di tigre nell’oscurità, formavano un cerchio intorno alle loro teste e tutti i cannonieri delle batterie inglesi s’avvicinavano ai cannoni; ed allora, commosso, tenendo sospeso su quegli uomini il minuto supremo, un generale inglese, Colville secondo alcuni, Maitland secondo altri, gridò loro: «Arrendetevi, valorosi francesi!» Cambronne rispose: «Merda!»

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Al paradiso delle signore


al paradiso delle signore

 

Che meraviglia le luci che splendono dalle vetrine di quel grande magazzino che si affaccia in rue de la Michodière proprio di fronte al Vecchio Elbeuf, il piccolo negozio dello zio Baudu; la giovane Denise, appena arrivata a Parigi ne resta affascinata e quasi timorosa, come impressionati lo sono anche i suoi due fratelli minori.

I tre giovinetti, da poco rimasti orfani di entrambi i genitori, hanno lasciato la provincia, e sono giunti nella grande città in cerca di una vita più dignitosa.

Il resto della loro storia è tutto da leggere ed è veramente facile lasciarsi trascinare dalle parole di Emile Zola, attraverso una lente di ingrandimento sull’animo femminile, sui vizi delle donne e le loro debolezze, le diverse reazioni e comportamenti davanti alle tentazioni che il centro commerciale con le sue merci e prezzi convenienti offre ad ogni donna che è la protagonista del libro, la vera regina in un regno di trine, merletti, veli e velluti.

Sovrana in un castello che cambia look ad ogni stagione la donna si muove in un giardino fiorito di organze colorate dalle mille sfumature, oppure nel magico candore di un paesaggio innevato dove il bianco abbacinante che riempie ogni reparto, con le luci che si accendono al crepuscolo, si trasforma in una sinfonia di riflessi dorati.

Ma è anche il racconto della lotta delle piccole imprese commerciali contro il colosso che, come una bestia feroce, pian piano li divora, lasciando sempre più gente sul lastrico.

Pubblicato nel 1883, è l’undicesimo romanzo dello scrittore francese appartenente al ciclo dei Rougon-Macquart, storia di una famiglia.

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Titolo: Al Paradiso delle signore
Titolo originale: Au Bonheur des Dames
Autore: Émile Zola
Traduttore: Martini Ferdinando
Editore: Newton Compton
Collana: Grandi tascabili economici
Data di pubblicazione: 1883 (prima edizione); 27 maggio 2010 (si segnala l’edizione più economica attualmente in commercio)
Pagine: 288
Prezzo: 6 €
Codice ISBN: 9788850231430

 Baguette

Ancora un a volta è il pane il protagonista su ogni tavola. Per Deloche era spesso l’unico cibo alla mensa del grande magazzino, dove cercava di tagliarsi fette sempre più grosse, per Geneviève e Colomban, nella casa di zio Baudu, ne spiluccavano le briciole, per altri ancora solo un accompagnamento per vivande più ricche.

Quindi che c’è di meglio della baguette, pane tipico francese fragrante e gustosissimo.

IMG_4906 Ingredienti per 3 baguette:

Per la biga:

  • 125 g di farina;
  • Circa la metà di una bustina di lievito madre essiccato di 35 g;
  • 125 g di acqua calda;

Altri ingredienti:

  • 300 g farina bianca;
  • 1 cucchiaino di sale;
  • 140 g acqua calda;
  • L’altra metà della bustina di lievito.

Procedimento:

Preparate la biga, sciogliendo in una ciotola grande la mezza bustina di lievito con i 125 g di acqua calda e mescolate bene; aggiungete i 125 g di farina fino ad ottenere un impasto liscio.
Coprite la ciotola e lasciate riposare a temperatura ambiente per una notte.
Il giorno dopo, in una ciotola più piccola, mescolate i 300 g di farina setacciandola con il sale.
In un’altra ciotola, mescolate il resto del lievito con i 140 g di acqua calda, mescolando fino a quando il lievito è ben sciolto, aggiungete questo impasto alla biga, poi unite anche la farina con il sale.
Amalgamate tutto bene bene, impastando con le mani l’impasto, sempre nella ciotola grande.
Coprite la ciotola e fate risposare per 10 minuti
Trascorso questo tempo tirate un lato dell’impasto, rigirandolo al centro. Girate la ciotola e tirate un’altra parte dell’impasto, ripiegandola al centro, continuate così rigirando la ciotola per lavorare tutta la pasta.
Coprite nuovamente e fate riposare per altri 10 minuti.
Ripetete questi ultimi passaggi per altre due volte.
Coprite e fate lievitare per circa 1 ora.
Spolverate di farina un ripiano di lavoro pulito; sgonfiate l’impasto con il pugno e trasferitelo sul piano infarinato dove lo dividerete in tre parti di peso uguale.
Appiattite una per volta le porzioni di impasto, formando un ovale, tirate verso l’esterno le due estremità e ripiegatele al centro; così fate anche con gli altri due lati superiore ed inferiore.
Girate il panetto ottenuto verso il basso, coprite e lasciate riposare per altri 15 minuti.
Trascorso questo tempo, rigirate il panetto e ripetete l’operazione precedente, ripiegando al centro i vari lati.
Adagiate le baguette ottenute su un canovaccio infarinato, con l’apertura verso l’alto.
Tenete le forme di pane separate le une dalle altre tirando il canovaccio su cui le avete appoggiate, copritele e lasciate riposare per un’altra ora.Al termine di quest’ultima ora di lievitazione, trasferite il pane sulla teglia foderata di carta forno, infarinata, spolveratelo di farina e con una lama affilata praticate dei tagli obliqui sulla parte alta del pane.
Scaldate il forno a 240°C, posizionando sul fondo dello stesso una teglia con dell’acqua, affinchè mantenga la giusta umidità.
In forno già caldo, cuocete per circa 15 minuti, o comunque fino a quando la superficie sarà colorata.

Un po’ di sale in zucca: … “La science a-t-elle promis le bonheur? Je ne le crois pas. Elle a promis la vérité, et la question est de savoir si l’on fera jamais du bonheur avec de la vérité.” (“La scienza ha promesso la felicità? Non credo. Ha promesso la verità, e la questione è sapere se con la verità si farà mai la felicità.”)
(Émile Zola)

 

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L’avvelenatrice


Un romanzo breve, tra quelli meno conosciuti del grande Dumas padre, che racconta la vita e le “imprese” dell’affascinante giovane Marie-Madeleine d’Aubray, marchesa di Brinvilliers, meglio conosciuta come l’ Avvelenatrice.

Pagine che esalano veleni, tra delitti e confessioni, amanti ed interessi, inseguimenti e arresti, fino all’agonia, alla tortura e all’ “ammenda onorevole”.

Pubblicato per la prima volta nel 1839 nella raccolta di romanzi brevi a tema poliziesco intitolata Les Crimes célàbres, la vicenda, ammaliante come la sua protagonista, conduce il lettore pagina per pagina in modo incalzante al suo straziante epilogo.

Ho letto la traduzione di un anonimo del 1902 e forse, proprio questo linguaggio, ormai abbandonato, ha il fascino e il merito di valorizzare, se ne avesse ancora bisogno, lo stile e il talento di Dumas che come sempre non tradisce i suoi lettori.

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Titolo: L’Avvelenatrrice
Titolo originale: La marquise de Brinvillers
Autore: Alexandre Dumas (padre)
Traduttore: Di Paola Manuela
Editore: Leone Editore
Collana: Gemme
Data di pubblicazione:
1839 (prima edizione nella raccolta di romanzi Les Crimes célàbres);  2013 (si segnala l’edizione più economica attualmente in commercio)
Prezzo: 9 €
Pagine: 128
Codice ISBN: 9788863931259

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La vicenda della dama pallida


La vicenda della dama pallida

Tra credenze popolari e inquietanti presenze che popolano i Monti Carpazi, due fratelli si contendono l’amore della bella Hedwige.

La trama di questo racconto non è complessa, pochi i protagonisti, ma quello che lo fa grandes ono le descrizioni che il grande autore francese  fa dei luoghi, dei paesaggi montani e dei sentieri che si inerpicano tra le vette, nonchè degli uomini che li percorrono.

Sarà che amo i classici, sarà che le descrizioni minuziose sono la parte che più mi affascina in un romanzo, sarà che Alexandre Dumas è uno degli scrittori che preferisco, ma ho trovato questa breve e semplice storia, una delicata e romantica poesia, una fiaba d’amore, di tradizioni colorata dal rosso della passione e del sacrificio, dal giallo della gelosia di un cuore egoista e dal bianco del pallido viso di una donna innamorata.

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Titolo: La vicenda della dama pallida
Titolo originale: Histoire de la Dame Pâle
Autore: Alexandre Dumas padre
Data di pubblicazione: 1849 (prima edizione)
Il racconto è anche contenuto nella raccolta Storie di Vampiri edita da Newton Compton con il titolo La bella vampirizzata.

Titolo: Storie di vampiri
Titolo originale: Storie di Vampiri
Autore: AA.VV.
Curatore: Fusco S. e Pilo G.
Editore: Newton Compton
Collana: I Mammut
Data di pubblicazione:
21 Ottobre 2009 (si segnala l’edizione più economica attualmente in commercio) 
Prezzo: 14,90 €
Pagine: 1015
Codice ISBN: 9788854116351

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Georges


Ancora Dumas… Lo so non ho molta fantasia, non riesco a resistere ad un libro del grande autore francese, perdonatemi se mi ripeterò esclamando che leggerlo valeva proprio la pena e che, è quasi con dispiacere quando alla fine della storia non si hanno altre pagine da girare e bisogna salutare i personaggi che ci hanno accompagnati.

Ma arriviamo alla vicenda. Lo scenario è l’Ile de France, l’odierna Mauritius, isola nel mezzo dell’Oceano Indiano. Il racconto inizia nel 1810, poi con un salto di 14 anni che hanno accompagnato Georges, il protagonista, in giro per il mondo, riparte nel 1824, quando il ragazzo riapproda su queste coste con la stessa nave del nuovo governatore inglese.

Georges è un giovane e ricco creolo deciso a vendicare una grave offesa ricevuta da bambino da parte di un coetaneo bianco. Gli anni che ha trascorso lontano da casa li ha usati per rafforzare la sua volontà, per vincere ogni debolezza e tentazione, per mostrare che una persona di colore può essere uguale e anche superiore ad un bianco. Il suo orgoglio è talmente grande e alimentato dal rancore che arriva quasi a sfidare Dio.

La personale vicenda del protagonista si svolge in una società dove è in vigore la schiavitù e dove la tratta dei neri, anche se abolita da una legge, viene ancora largamente praticata. E proprio questa popolazione di colore cerca di ribellarsi, di riscattare la libertà combattendo contro il padrone.

Il libro però non racconta propriamente una storia di riscatto, gli schiavi ne vengono fuori come facili vittime delle loro stesse debolezze e solo un gruppo di loro riuscirà a mantenere la propria dignità.

Attraverso la magia di queste pagine, saliremo su una fregata inglese, saremo inebriati dal profumo di fiori variopinti, ci culleranno le voci malinconiche dei canti degli schiavi e dell’allegro cinguettio degli uccelli, varcheremo i cancelli di grandissime tenute e ville lussuose, isseremo le vele di una nave negriera al comando del suo simpatico comandante, ci lasceremo andare ad un mondo di sogni con l’aiuto di qualche bicchiere di whiskey, condivideremo le emozioni di odi, rancori, vendette, ma anche di incondizionata fedeltà, di amicizia, di simpatie, di grande stima, di forte volontà e di una grande, tenera e commovente storia d’amore, l’unica protagonista che uscirà vincente da questo romanzo.

Dumas è un maestro di queste storie, gli ambienti dei suoi romanzi cambiano, molteplici sono le personalità e le vicende storiche, ma sempre grandi e uniche la sua genialità e la sua abilità narrativa.

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Titolo: Georges
Titolo originale: Georges
Autore: Alexandre Dumas (padre)
Traduttore: Goruppi Tiziana
Editore: Adelphi
Collana: Gli Adelphi
Data di pubblicazione:
1843 (prima edizione); 31 Ottobre 2002 (si segnala l’edizione più economica attualmente in commercio) 
Prezzo: 9,50 €
Pagine: 425
Codice ISBN: 9788845917370

Banane al forno

Un povero schiavo ruba una banana, la cuoce nella brace: è tutto quello che può fare per la moglie malata, ma la banana sparisce…
Ho voluto provare a riscattare questo sopruso con una ricetta di banane al forno, semplice ma gustosa.

IMG_0977 Ingredienti (per 4 persone):

  • 4 banane;
  • 4 cucchiai di burro;
  • 2 cucchiai di zucchero;
  • Cannella in polvere q.b.;

Procedimento:

Lavate accuratamente la buccia delle banane strofinandola con un panno umido. Sfogliatele senza staccare completamente la buccia, in modo da ottenere un fiore.
Ungete bene una teglia col burro e disponeteci le banane una accanto all’altra.
Guarnite ogni banana con un fiocchetto di burro. Cospargete con lo zucchero, annaffiate con dell’acqua e infine spolverizzatele con la cannella.
Cuocete in forno a 180°C per 20 minuti.

Consigli: le banane devono essere mature, ma non troppo molli. Inoltre potrete insaporirle annaffiandole di maraschino o servirle con guarnizioni di cioccolato fondente, panna ontata, gelato e fragole.

Un po’ di sale in zucca:Les fruits de la terre se recueillent tous les ans, et ceux de l’amitié tous le jours.”…(François des Rues, Scrittore e moralista francese 1575-1633)

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Robin Hood


Il racconto di Dumas, secondo la leggenda, ci svela le origini di Robin Hood fino alla decisione di vivere nella foresta di Sherwood e combattere con i suoi amici i  soprusi e le ingiustizie di nobili dispotici e di uno sceriffo che gestisce la legge secondo le proprie convenienze.

Scopriremo chi sono il forte gigante Frate Tuck, l’altrettanto robusto Little John, la dolce lady Marian, la bella e furba Maude e gli altri esperti arcieri che formeranno la brigata.

Ho conosciuto un Dumas fine narratore, profondo conoscitore della storia, meticoloso fotografo della corte di Francia, magistrale ritrattista dell’animo umano, grande illustratore di paesaggi, di ricche dimore e campi di battaglia. In questo libro lo ritrovo menestrello medievale che ci canta le gesta di un eroe conosciuto da grandi e piccini e della sua compagnia di allegri briganti.

Ma come in tutti i libri di questo scrittore francese, le caratteristiche che lo contraddistinguono saranno la ricerca di cuori nobili, l’ironia, l’astuzia e la leggerezza del racconto, mai cupo anche nelle situazioni più tristi.

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Titolo: Robin Hood il proscritto
Titolo originale: Robin Hood le Proscrit
Autore: Alexandre Dumas (padre)
Traduttore: Chiaravelli L.
Editore: Newton Compton
Collana: Grandi tascabili economici
Data di pubblicazione: 1863 (opera postuma); 12 Maggio 2010 (si segnala l’edizione più economica attualmente in commercio)
Prezzo: 5,10 €
Pagine: 186
Codice ISBN:  9788863092813

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Il Visconte di Bragelonne


il visconte di bragelonne

Un grande romanzo, tanti racconti, la storia.

Un re riportato sul suo trono, un altro che riesce a liberarsi dei suoi burattinai. Intrighi politici, intrallazzi finanziari, e appuntamenti galanti. Cuori che palpitano, cuori infranti e cuori traditori. Nobiltà ambiziosa, popolo che soffre, feste di palazzo, poeti, filosofi; damigelle e cortigiani con l’ambizione di scrivere di storia. Soldati che muoiono al fronte.

Tutto questo ed altro ancora succede alla corte del Re Sole.

Con questo altro capolavoro Dumas conclude in modo commovente, ma sempre di grande pregio, il ciclo dei Moschettieri.

Athos, Porthos, Aramis e D’Artagnan sono ormai i maturi protagonisti di vicende politiche, cavalleresche e d’onore che con  l’età hanno affinato le loro caratteristiche: il cuore, la forza, l’intelligenza, l’astuzia, l’onestà e la grande capacità di leggere nell’animo delle persone.

Anche se ormai le loro vite si sono separate, anche se si sono trovati su sponde diverse, la loro amicizia e la loro complicità sono sempre incrollabili; l’onore e la lealtà sono ancora una volta il vessillo da seguire.

Il grande scrittore francese, sempre così storicamente preciso, ci sfida quasi a separare i ruoli dei moschettieri e degli altri pochissimi personaggi di fantasia, dalle vicende reali che si succedono alla corte di Luigi XIV.

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60x60_07_cuffie Ascolta un brano del libro: Il Visconte di Bragelonne

Titolo: Il Visconte di Bragelonne
Titolo originale: Le Vicomte de Bragelonne
Autore: Alexandre Dumas (padre)
Traduttore: Monicelli T.
Editore: Newton Compton
Collana: Grandi tascabili economici. I Mammut
Data di pubblicazione:
1848 (prima edizione); 16 Aprile 2009 (si segnala l’edizione più economica attualmente in commercio)
Prezzo: 14,90 €
Pagine: 1283
Codice ISBN: 9788854114029

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La Regina Margot


La regina Margot

Siamo nel 1572, si celebra il matrimonio  tra Enrico di Navarra e la bellissima Margherita di Valois.

Ma queste nozze sono volute per puntellare la fragile pace tra i calvinisti e cattolici o per attirare a Parigi gli ugonotti e poterli sterminare, nella tristemente conosciuta notte di San Bartolomeo?

Sul trono di Francia siede Carlo IX, fratello di Margot (così come Carlo chiama Margherita). E’ figlio di Enrico II e della perfida e superstiziosa Caterina de’ Medici. Re di salute cagionevole, sembra amare solo la caccia e i suoi cani.

Il lettore, a cui spesso Dumas si rivolge, diventa ben presto contemporaneo spettatore delle vicende narrate. Nascosto in ogni salottino degli appartamenti reali del Louvre, ascolterà sospiri d’amanti e cospirazioni. Sbircerà attraverso le serrature nei laboratori di alchimia della poco materna regina madre e del suo mago/profumiere Renè, per vedere cosa l’aruspice sentenzierà sul futuro del trono o assistere alla preparazione di fatali intrugli.

In mezzo a questi avvenimenti, tra le pareti del Louvre, nascerà e crescerà la bellissima amicizia tra l’ugonotto  Giacinto de La Môle e il cattolico piemontese Annibale di Coconas. Questa amicizia fraterna, persino più forte della passione per le loro amanti, sarà la vera protagonista del romanzo.

Il talento di Dumas non si discute, e allora, ancora una volta “tutti per uno, uno per tutti”.

Un solo avvertimento: non vedere mai il film prima di avere letto il libro! La pellicola cinematografica non rende giustizia al grande letterato francese. E secondo me non coglie l’anima della storia.

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Titolo: La regina Margot
Titolo originale: La Reine Margot
Autore: Alexandre Dumas (padre)
Traduttore: Dazzi Maria
Editore: Rizzoli
Collana: BUR Classici moderni
Data di pubblicazione: 1845 (prima edizione); 1° Gennaio 2006 (si segnala l’edizione attualmente in commercio)
Prezzo: 10,90 €
Pagine: 672
Codice ISBN: 9788817014595

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Il tulipano nero


Il tulipano nerp

Il grande Dumas padre ci racconta una storia rocambolesca che sfiora lo spionaggio industriale, ma anche romantica e delicata. Siamo in Olanda nel 1600. Il potere politico è conteso tra il Gran Pensionario borghese de Witt e lo Statolder, l’aristocratico Guglielmo III d’Orange; l’economia è forte anche grazie alla coltivazione dei tulipani, giunti  nei paesi bassi dall’isola di Ceylon.

Il protagonista è forse il ricco Cornelius che coltiva tulipani e che ha come unico scopo il creare nuove forme e colori per questi splendidi fiori?

O forse è il raffinato e irraggiungibile Tulipano Nero che vuole per sè il cuore delle persone e provoca invidia e gelosia?

O è forse la dolce e innamorata Rosa, l’eroina coraggiosa e tenace di questo racconto?

Un Dumas diverso da quello dei Tre Moschettieri, ma sempre grande, molto preciso storicamente, avventuroso e appassionante.

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Titolo: Il tulipano nero
Titolo originale: Le tulipe noire
Autore: Alexandre Dumas (padre)
Traduttore: Reim Riccardo
Editore: Newton Compton
Collana: Grandi tascabili economici
Data di pubblicazione: 1850 (prima edizione); 27 Maggio 2010 (si segnala l’edizione più economica attualmente in commercio)
Prezzo: 6,00 €
Pagine: 240
Codice ISBN: 9788854119697

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